Bad Religion
Brett Gurewitz racconta il ritorno nel gruppo, il nuovo disco e le fortune della Epitaph...
Se c’è un album che esemplifica l’idea di “ritorno a casa”, è senza dubbio “Process of belief”, il nuovo disco dei Bad Religion: il gruppo torna a incidere per la Epitaph, dopo quattro album su major (non sempre brillanti, a dire la verità) e Brett Gurewitz riprende il posto di chitarrista che aveva mollato nel 1994, aggiungendosi al suo sostituto Brian Baker. Nel gotha del punk statunitense, si tratta indubbiamente di un avvenimento. Resta da vedere se il pubblico resterà fedele alla band, che indubbiamente non ha perso nulla in termini di aggressività ed energia ma sembra a volte fin troppo granitica nel riproporre la miscela di durezza e melodia che l’ha resa celebre. Gurewitz comunque sembra soddisfatto. E chi non lo sarebbe, con un’etichetta che va a gonfie vele e un posto da protagonista in uno dei gruppi punk più noti del pianeta?
“Process of belief” si apre con pezzi brevi e veloci. Sembra quasi un modo per far capire subito che i Bad Religion sono tornati e non si sono rammolliti. Era questa l’intenzione?
Più o meno sì. Con questo album volevamo avere una dichiarazione di intenti in senso punk. Il fatto che cominci con pezzi aggressivi però è il risultato di una decisione piuttosto faticosa. Per il disco avevamo diverse canzoni brevi e veloci e altre più lente e più lunghe e c’è voluto parecchio per scegliere una sequenza soddisfacente.
Oltre al rientro sulle scene dei Bad Religion, il disco segna anche il tuo ritorno nel gruppo. Come è arrivata questa decisione?
Molto semplicemente, avevo voglia di tornare a suonare e scrivere canzoni. Adesso ho più tempo a disposizione rispetto a qualche anno fa perché ho meno impegni con la Epitaph. L’etichetta ormai ha una struttura piuttosto stabile ed è organizzata meglio, quindi posso tornare a suonare. Fortunatamente, il gruppo mi ha chiesto di tornare nello stesso periodo, c’è stata una coincidenza favorevole di tempi.
Il tuo ritorno non ha messo in difficoltà Brian Baker, che era stato chiamato a sostituirti?
Credo che all’inizio Brian fosse un po’ spaventato, probabilmente temeva che io avrei preso il suo posto. Io ho messo in chiaro subito che non avevo intenzione di sostituire nessuno e presto abbiamo visto che non c’erano problemi a suonare insieme. Brian ha un grande rispetto per me, come autore e come chitarrista e lo stesso vale per me nei suoi confronti.
Con il nuovo album, i Bad Religion tornano alla Epitaph, dopo qualche anno con una major. Pensi che sia la soluzione migliore per il gruppo, dal punto di vista discografico?
Credo proprio di sì. La Epitaph è l’etichetta migliore per un gruppo come i Bad Religion. Onestamente, non credo che per un gruppo punk una major possa fare qualcosa che la Epitaph non è grado di fare. Forse però il mio giudizio non è del tutto obiettivo, visto che mi occupo dell’etichetta e suono nella band.
A proposito della tua attività da discografico, è evidente che la Epitaph non vuole più limitarsi solo al punk, visto che avete pubblicato dischi di Tom Waits e Merle Haggard, ad esempio. Che intenzioni avete?
Tieni presente che Tom Waits e Merle Haggard non sono usciti direttamente su Epitaph, ma su Anti. Si tratta sempre della stessa compagnia, ma abbiamo creato il marchio Anti proprio per mantenere la Epitaph legata al punk. In pratica, la nuova etichetta ci serve per stampare tutto quello che non è in linea con il suono tipico della Epitaph. Per la Anti non cerchiamo artisti legati a un genere particolare, ma ci interessa il loro atteggiamento nei confronti della musica: devono essere originali e avere una forte integrità artistica, non disposta ai compromessi.
Il che immagino che valga anche per la vostra associata Fat Possum, che è probabilmente l’etichetta più punk della scena blues.
Esattamente, mi sembra una descrizione perfetta per quello che fanno. Sono molto contento di lavorare con loro e di avere avuto la possibilità di aiutarli quando si sono trovati in difficoltà.
Ma le cifre di vendita della Fat Possum sono buone?
Onestamente no, ma è importante fare uscire i loro dischi, perché sono lavori di vero blues, quello che io considero come musica folk, popolare. In questo senso, si avvicina un po’ al punk.
E’ curioso sentirlo dire da un musicista cresciuto sull’onda dei gruppi del ‘77 e dell’hardcore. All’epoca, si tendeva a tagliare i ponti con la tradizione rock più consolidata e le sue radici blues.
Era un rifiuto delle forme più commerciali del blues, niente a che vedere con il blues vero.
La Epitaph sta promovendo anche gruppi europei. State cercando di allargare la vostra presenza in mercati al di fuori degli Stati Uniti?
Negli anni ’80 conoscevo diversi gruppi europei che non riuscivano a trovare qualcuno che li facesse registrare e distribuisse i loro dischi. Sapevo che anche in Europa c’era una scena che valeva la pena di seguire e adesso che ne ho la possibilità, mi sembra giusto far conoscere gruppi validi.
I Bad Religion hanno sempre osservato con occhio critico la situazione sociale e politica degli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre, la guerra e la forte propaganda patriottica è più difficile far passare un punto di vista diverso da quello sostenuto dalle autorità?
Abbiamo finito di registrare il disco prima dell’11 settembre, quindi nelle canzoni non ci sono riferimenti diretti a ciò che è accaduto. Penso che la situazione adesso sia difficile per tutti, è importante che i gruppi punk riescano a mantenere aperto uno spazio in cui sia possibile discutere di certi temi. Ovviamente io non ho soluzioni da proporre. Non giustifico l’attentato alle Twin Towers, perché non è proprio possibile giustificare un’azione del genere. D’altra parte, mi rendo conto che la politica estera degli Stati Uniti possa causare risentimento. E’ importante aiutare le popolazioni colpite dall’intervento militare americano, perché la guerra alimenta sempre l’odio di chi subisce, ma non ho risposte per situazioni simili.
Cosa ti aspetti da “Process of belief”?
Spero solo che renda felici i fan dei Bad Religion. Abbiamo fatto un album in vero stile punk rock e so che molti aspettavano questo da noi.
Sottolinei spesso il legame del gruppo con il punk, ma il nuovo album viene presentato alla stampa come il lavoro di un gruppo rock a tutti gli effetti, capace di uscire dai confini della scena punk. Come mai? Temete di rimanere inchiodati a un’area di genere tutto sommato ristretta?
No, non abbiamo un problema del genere. Il punto della questione è che i Bad Religion sono un gruppo che ha ormai parecchi dischi alle spalle. Abbiamo scritto molte canzoni e alcune di queste non si possono definire punk. Era importante spiegare che quando andiamo oltre il punk, sconfiniamo nel rock. Volevamo sottolineare che non siamo una pop band. Intendiamoci, ci piace il pop ma non suoniamo quel genere di cose.
Perché volete rimarcare in modo così netto la vostra distanza dal pop?
Perché per me si tratta di musica “a perdere”, è troppo legata al successo momentaneo, alla necessità di trovare il pezzo giusto per scalare le classifiche. Noi cerchiamo sempre di scrivere canzoni che possano avere significato anche molto tempo dopo che sono state realizzate. E’ difficile spiegare il modo in cui componiamo, ma l’obiettivo che vogliamo raggiungere è quello di avere un buon pezzo, senza essere condizionati dalle esigenze commerciali mentre nel pop invece devi tenere conto di questo.
Da qualche anno hai superato una situazione personale difficile. Come sei riuscito ad uscirne?
Ho avuto parecchi problemi di droga, ma da quattro anni ne sono completamente fuori. Di fatto, il momento decisivo è stato quando mi sono ritrovato in prigione. Mi hanno costretto a seguire un programma di riabilitazione e da lì in poi sono riuscito a riprendermi. So che l’osservazione si presta a essere fraintesa, ma posso dire che l’arresto mi ha salvato la vita. Prima, la mia esistenza era troppo confusa: avevo troppi impegni, fra etichetta e gruppo, e infatti sono stato costretto a lasciare i Bad Religion.
(Paolo Giovanazzi)
(21 Gen 2002)