La seminale band californiana ha sempre ricevuto la stima del pubblico, grazie alla propria integrità e ai suoi test attenti alle tematiche sociali e politiche.
In questo periodo di grossa crisi internazionale, i Bad Religion alzano ancora una volta la voce con “The empire strikes first”, un ottimo disco, il secondo dopo il ritorno di Brett Gurewitz.
TESTO: Daniel C. Marcoccia – FOTO: DR
È bello vedere che i Bad Religion dopo vent’anni sono ancora incazzati con la società? “The empire strikes first” è un bel disco di denuncia...
Greg Graffin (voce): Grazie. Credo che questo sia alla base di una musica come il punk. Per questo disco ci siamo guardati attorno e ci siamo chiesti cosa stava accadendo al mondo. È per noi un privilegio poter parlare e dire come la pensiamo.
“The empire strikes first” sembra infatti molto influenzato dai fatti del mondo e dalla situazione delicata che stiamo attraversando.
G.G.: Si, è vero, ma come rimanere impassibili davanti alla situazione internazionale? Siamo dei cittadini del mondo, suoniamo spesso in giro per i vari continenti e quanto sta avvenendo un po’ ovunque ci coinvolge tutti. In questo disco siamo andati direttamente al cuore del problema, abblamo puntato il dito contro un bersaglio ben preciso. Era proprio quello che ci chiedevano i nostri fan, essere chiari nelle nostre accuse. In passato, nei testi parlavamo soprattutto della vita, di come potesse non essere sempre facile, raccontavamo di emozioni legate all’essere umano... Tutto quello che sta avvenendo nel mondo ci riguarda da vicino.
Quindi avete avuto tanto argomenti dai quali trarre spunti interessanti?
G.G.: In effetti, tra un disco e l’altro, non sono mancati gli argomenti: c’è stata prima di tutto la farsa dell’elezione del nostro presidente, poi l’11 settembre, la guerra in Afghanistan, l’invasione dell’Irak, la storia delle armi di distruzione di massa che poi nessuno ha mai trovato, per non parlare infine del martellamento mediatico della CNN. Come puoi ben vedere, c’era molto materiale per scrivere canzoni. Il titolo del disco vuole sottolineare quella che è la politica del nostro governo ovvere quella dell’impero che attacca per primo. Spiega bene lo spirito colonialista del nostro paese, la sua volontà di fare la guerra continuamente. Il nostro presidente agisce senza avere l’accordo totale del popolo americano. Francamente, non pensavamo di scrivere tanto della guerra ma un certo punta era veramente impossibile stare zitti.
Vi sentite in qualche modo responsabili nei confronti di chi vi ascolta? Credete di dovere informare la gente?
G.G.: Mi sento prima di tutto responsabile nei miei confronti. Quando scrivo un testo, voglio mantenere la mia integrità e dire cose che riflettono il mio pensiero.
IL PEGGIOR PRESIDENTE
Vedo che Bush ti è particolarmente simpatico...
G.G.: È probabilmente il peggior presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto in tutta la loro storia. Per difendere interessi economici e personali non esita a mandare il suo Paese in guerra. E la cosa più assurda è che da noi ci sono ancora tanti conservatori che lo appoggiano. È davvero molto preoccupante. L’America è oggi un Paese diviso, con metà della popolazione contro questa amministrazione.
Un brano come “Let them eat war” è infatti una chiara frecciata alla politica di Bush, sfavorevole alle classi più povere...
G.G.: Che sono poi quelle che lo sostengono maggiormente. A protestate contro Bush sono soprattutto gli intellettuali liberali e la classe media. Eppure lui ha dalla sua parte la stessa working class che viene impoverita ulteriormente dalla sua politica. Non ti sembra un controsenso? Il titolo “Let them eat war” riprende una frase della regina francesce Maria Antonietta, la quale disse di dare del dolci al popolo che non aveva pane. La stessa cosa fa il nostro governo con la classe operaia, solletica lo spirito patriottico facendo la guerra. L’amministrazione attuale spende molti soldi in armi e nell’esercito mentre tanta gente lotta letteralmente per mangiare.
Parlami del primo singolo “Los Angeles is burning”?
G.G.: Il titolo prende spunto dagli incendi che hanno colpito la città lo scorso anno, ma il testo affronta il tema del decadimento dei media e in particolare del mondo in cui questi riescono a travisare la realtà. Purtroppo le informazioni trasmesse danno spesso una visione distorta della realtà e questa è una situazione molto diffusa oggi negli Stati Uniti. Le TV americane fanno praticamente propaganda a favore della Casa Bianca. Per questa canzone ho scelto proprio Los Angeles perché è un po’ la città dei media , del cinema e della finzione. Ha una grossa crisi di identità.
Ha anche un attore per governatore…
G.G.: Arnold Schwartzenegger conferma una tendenza tipica del nostro paese che ama prendere attori e celebrità al posto dei veri politici.
Quando avete iniziato a lavorare a “The empire strikes first”? Il vostro metodo di lavore è forse cambiato?
G.G.: Questo disco lo abbiamo iniziato a scrivere un anno fa, sviluppando le canzoni ognuno per conto proprio ed entrando poi in studio a novembre. Abbiamo tutti degli home studio, anche perché viviamo molto distanti gli uni dagli altri, e per questo disco abbiamo deciso di lavorare separatamente. Poi ci siamo incontrati con Brett per registrare il tutto. Questa volta non siamo andati nei soliti Westbeach Studios ma ai Sound City, sempre a Los Angeles.
Questo è il secondo album dal ritorno in formazione di Brett Gurewitz. Come valuti questo come back e quali frutti ha dato alla band?
G.G.: Sicuramente ha dato molto a livello di songwriting, io e Brett siamo sempre stati i due compositori della band, questo fin dall’inizio. Le nostre scritture sono complementari e assicurano una certa varietà ai nostri dischi. Siamo cresciuti insieme e i nostri pensieri sono simili. E poi è una sfida per me, come suppongo anche per Brett, dovermi confrontare sempre con qualcuno bravo. La nostra è una sana competizione. Quando Brett arriva con un pezzo fantastico, l’unica cosa che mi resta da fare è andare a scriverne almeno due o tre dello stesso livello.
TORNARE A CASA
Come giudichi invece gli anni passati con una major e il ritorno alla Epitaph avvenuto con lo scorso disco?
G.G.: Quando abbiamo firmato con una multinazionale era il momento giusto per farlo. Ma ci siamo accorti che non era la nostra dimensione, eravamo più a nostro agio con la Epitaph: è stato un po’ come tornare a casa. Quegli anni sono stati sicuramente utili per tornare a lavorare con Brett e continuare a fare dischi decenti. Ma credo che sia la partenza di Brett, sia il passaggio a una major, fossero cose che dovevano accadere. In quel periodo la Epitaph e i Bad Religion stavano crescendo a forte velocità e si stavano facendo ombra a vicenda. Era probabilmente inevitabile separarci, per il meglio delle due entità.
Stare in un etichetta come la Epitaph, e per di più di proprietà del chitarrista, crea sicuramente una situazione più tranquilla.
G.G.: La scelta di andare con una major non era legata alla grandezza di questa ma al feeling instaurato con una persona che ci lavorava. Purtroppo non avevamo tenuto conto del turnover continuo che avviene nelle multinazionali del disco, conoscevamo solo la realtà della Epitaph ed à stato quindi una sorpresa cambiare in continuazione referente. Abbiamo inoltre capito come lavorano gli altri. Alla Epitaph non senti la pressione dei discografici sul collo e quindi lavori al meglio. Anche perché, appunto, il discografico sta nella band (ride)…
Quale significato ha oggi per te la parola punk?
G.G.: Mi considero punk e credo che sia più che altro un’attitudine. È probabile che oggi si sia un po’ perso lo spirito anarchico del punk e che il messaggio originario sia ormai andato… Purtroppo tutto tende a diventare mainstream. Noi continuiamo ad avere dei messaggi forti, forse perché le nostre radici risalgono alla vera musica punk, a quella degli anni ’70. La musica è un mezzo potente, in grado di spronare dei cambiamenti sociali, non è solo intrattenimento.
Qual è secondo te il segreto dei Bad Religion, della loro longevità?
G.G.: Forse la tenacia. E magari la nostra capacità di scrivere canzoni che fanno pensare… La gente spesso si riconosce in quello che diciamo e quindi ci stima. Nella nostra musica trovi di tutto, una varia gamma di sentimenti, dal fun fino all’impegno. Tutti sono capaci di comporre un classico pezzo punk di due minuti, noi lo facciamo a occhi chiusi, ma poi sono i nostri testi a fare spesso la differenza.